sabato 28 giugno 2014

La timidezza

di Chiara Svegliado

Che cos’è la timidezza?

E’ quasi impossibile definirla. Innanzi tutto perché un timido è un insieme di elementi molto complessi, inoltre perché esistono diverse tipologie di timidezza. In linea generale si possono distinguere: i timidi propriamente detti, la cui timidezza costituisce un aspetto permanente del carattere; i timidi temporanei che soffrono di crisi periodiche di timidezza, generata da circostanze diverse; i grandi timidi o “sociofobi”, che soffrono di una forma di timidezza estrema, tale da annullarne totalmente o quasi la personalità e gli atti personali.
E’ necessario distinguere le circostanze che provocano la timidezza: una persona può essere ad esempio particolarmente timida nei confronti dell’altro sesso o dell’autorità. Nel caso sia l’autorità ad intimidire, è necessario approfondire sotto quale forma essa si presenta: religiosa, sociale o artistica; oppure, l’autorità può essere rappresentata da una persona che ricopre un determinato ruolo nel contesto relazionale a cui appartiene il timido (il padre, il capoufficio, l’insegnante, ecc..).
Per esempio, molte persone sono timide di fronte ad un’uniforme (soprattutto quella di un poliziotto). La ragione risiede nel fatto che in questo caso, l’uniforme rappresenta una barriera, un’impossibilità a discutere e a farsi comprendere. Di fronte all’individuo che indossa un’ uniforme, l’interlocutore timido prova un senso di impotenza e di frustrazione. Le reazioni che ne derivano possono essere quindi di svariata natura e sono comunque da leggersi tutte come forme di compensazione: di umiltà, scortesia, grossolanità, aggressività.
La stessa forma di timidezza contraddistingue alcune persone brillanti nel momento in cui debbano relazionarsi con persone poco intelligenti. Questo avviene perché la stupidità, per una persona intelligente, rappresenta anch’essa una barriera, un muro, in quanto rappresenta l’impossibilità a comunicare. Impossibilità, per la persona intelligente, di parlare lo stesso linguaggio di chi gli sta di fronte e quindi di farsi capire. La persona intelligente e timida nutre inconsciamente il timore di provare dei sentimenti di umiliazione e di frustrazione senza alcuna possibilità di rivalsa.
E’ evidente dunque che alla base della timidezza c’è sempre un sentimento di frustrazione e di inferiorità nel relazionarsi con gli altri.
Essa è come un tronco sul quale possono innestarsi innumerevoli rami: molto spesso questo disagio nasconde un senso di colpa, un’autopunizione o un’omosessualità (latente o reale).
Mentre è difficile che un timido si senta a disagio standosene a casa da solo, il problema insorge quando si trova in presenza di altri, oppure, alla sola idea di un possibile contatto. In questo caso, tre sono fondamentalmente i rischi ai quali egli si sente esposto e che possono tradursi nel: 1) timore di non riuscire a controllare l’intensità del proprio disagio nei diversi contesti sociali; 2) timore di non controllare i segni visibili e fisiologici del suo disagio (rossore, difficoltà di espressione e così via..); 3) timore di essere respinto, come naturale conseguenza del suo sentirsi a disagio.

Le manifestazioni della timidezza

Nel momento in cui è colpito da una crisi, diverse sono le manifestazioni fisiologicheche caratterizzano il timido: disturbi della secrezione (traspirazione, soprattutto delle estremità, mancanza di saliva; deglutizione anormale); dilatazione dei vasi periferici: il rossore al viso; costrizione dei vasi periferici: il pallore del volto; disturbi della parola e della respirazione: contrazioni del torace, corde vocali rigide che implicano parola strozzata, respiro corto, balbuzie, respirazione aritmica, cambiamento di voce che talvolta è molto bassa ed incomprensibile; rigidezza muscolare: incapacità di coordinare volontariamente i movimenti, esitazione, movimenti involontari, facilità ad inciampare, a rompere oggetti, mancanza di equilibrio; tremolio alle dita; contrazioni cardiache: sensazioni che il cuore stia per cedere; spossamento, sudore, stato di passività una volta terminata la crisi di timidezza.
Alla base di queste manifestazioni fisiologiche, vi sono delle manifestazioni psicologiche che sono le più numerose e che accomunano tutte le diverse forme di timidezza: innanzitutto si restringe in modo considerevole la capacità di osservazione e il campo della coscienza. Una cosa soltanto infatti colpisce il timido: la circostanza che lo intimidisce. Al di fuori di questo egli non sente niente, non vede niente e non osserva niente; ne è un esempio il conferenziere che, dopo la conferenza, ignora di aver saltato alcuni pezzi del suo testo.
Di conseguenza, diventando impossibile una reazione immediata, il timido si sente completamente paralizzato, e come se fosse all’improvviso privo di intelligenza, reagisce in un modo assurdo ed impacciato. Molto spesso infatti una persona intelligente e timida, può apparire stupida. Al contrario, la circostanza che ha generato la timidezza è osservata con implacabile acutezza. Nel cervello dei timidi si fissano i più minimi dettagli, le piccole impressioni; ed è solo su questo materiale che il pensiero torna senza sosta a rimuginare.
La paura può essere avvertita come un’oppressione interna spaventosa insieme alla sensazione di soffocare e può anche essere seguita da intontimento e da inerzia; si fa forte il desiderio di fuga e il tentativo di respingerlo non fa che aumentare la paura. Qualsiasi attività di ritirata viene così esclusa e il timido prova dentro di sé la paura di un animale in gabbia.
Questa sofferenza può essere generata anche alla sola idea di dover affrontare una situazione che si conosce e che si considera pericolosa, come ad esempio il rifiuto di partecipare ad una riunione, ad un pranzo, o ad un appuntamento: il rifiuto anticipato di tali situazioni fa spesso scatenare nei timidi dei malesseri fisici, come per esempio falsi raffreddori per vasodilatazione, mal di stomaco per contrazioni, male al cuore per contrazioni cardiache.
Esistono inoltre le cosiddette forme di timidezza localizzata, legate per lo più all’aspetto fisico: quante volte ci è capitato di sentire frasi come queste:” sono diventato timido perché troppo grasso, perché ho i capelli rossi, perché ho il naso grosso”.
In tutti questi esempi, le cause della timidezza sono rivelate dalle stesse persone, inconsapevoli tuttavia del fatto che non sono delle vere cause. Spesso infatti si cerca inconsciamente di ricondurre l’origine della propria timidezza a qualcosa che crediamo sia una discriminante nel momento in cui dobbiamo farci accettare dagli altri. Queste persone dunque, sebbene siano veramente timide, cercano di attribuire ad un proprio difetto la responsabilità della loro timidezza, allo scopo di giustificarla. La timidezza di base tuttavia, va ricercata in altre direzioni.

Tipologie di timidezza 

All’Ospedale Sainte – Anne, a Parigi, psichiatri e psicologi clinici hanno censito cinque grandi classi di timidezza, che si manifestano in relazione alle situazioni più temute. Le due più frequenti sono la timidezza di azione e la timidezza di prestazione:

  • Timidezza d’azione: è la paura di disturbare l’altro. I timidi di azione non vorrebbero contraddire gli altri per nessun motivo; non vorrebbero mai trovarsi a dover prendere un’iniziativa che potrebbe metterli a rischio di tradire un disaccordo da parte loro. A proprio agio in pubblico, non si oppongono mai. Rifuggono le discussioni, evitano di porre domande precise durante le conversazioni. La loro paura del conflitto riflette il timore di essere poco stimati.
  • Timidezza di prestazione: è l’impressione ossessiva e paralizzante che gli altri siano lì per giudicarci. L’esposizione di fronte ad una classe, la lettura di un testo durante un matrimonio sono situazioni che mettono alla prova. Questa forma di timidezza inizia a manifestarsi sui banchi di scuola, con la paura di fare domande in classe. Timidezza del quotidiano: gli incontri con un vicino, o il semplice fatto di andare al lavoro e di chiacchierare con i colleghi possono essere un supplizio. I timidi del quotidiano temono sguardi, silenzi, situazioni di stasi cui sembra aprirsi un baratro tra loro e l’interlocutore. Il massimo del disagio consiste nel percorrere un tragitto in automobile con una persona che non si conosce molto bene. Senso di paralisi, sudorazione e tensione interna riflettono questa paura di non “saper fare conversazione”.
  • Timidezza della rivelazione di sé: in questo caso la paura riguarda il territorio del personale. I timidi della “rivelazione di sé” sono a proprio agio con le conversazioni quotidiane, ma si bloccano quando si sfiora la loro vita personale. Li si conosce da anni, e ci si rende conto tutto d’un tratto di non sapere nulla di loro.
  • Timidezza di visibilità: questa timidezza corrisponde all’angoscia di trovarsi a incrociare sguardi. Il timido di visibilità detesta, per esempio, passare davanti ad un caffè all’aperto con le persone sedute ai tavoli.

La sociofobia 

Una forma estrema di timidezza è la sociofobia: appartengono a questa categoria le persone angosciate di ritrovarsi in mezzo alla gente.

Generalmente i timidi appartenenti a questa categoria soffrono in silenzio, paralizzati dalla paura degli altri e dall’immagine che potrebbero dare di sé. Questi individui, chiamati anche sociofobi, sono circa il 5% della popolazione, per la maggioranza donne. Pur essendo stata sottovalutata per molti anni, oggi questa condizione, visto l’elevato grado di penalizzazione e diffusione, viene riconosciuta dalla psichiatria come una vera e propria malattia.
Si parla di fobia sociale quando una persona ha paura di affrontare lo sguardo altrui ed è colta dall’ansia prima di qualsiasi contatto con estranei; durante l’incontro si angoscia a tal punto da giungere al panico estremo e si sente, alla fine del confronto, umiliata e piena di vergogna.
I sociofobi temono infatti qualsiasi incontro: con un vicino, un negoziante o un collega, a prescindere dal fatto che abbiano a che fare con più persone o con un solo interlocutore. Sebbene il prendere la parola ad una riunione sia la situazione più temuta, essi hanno tuttavia anche paura di essere osservati nelle situazioni più comuni: mentre mangiano, mentre camminano per strada o scrivono. Hanno la sensazione di essere sempre al centro dell’attenzione anche se razionalmente riconoscono che non è sempre così e si sentono privi di ogni protezione di fronte agli altri. Il sociofobo si sente sempre giudicato negativamente dagli altri in qualsiasi situazione e questi giudizi negativi riflettono la visione che egli ha in realtà di se stesso.
Questa autosvalutazione può essere focalizzata su un generale senso di inferiorità o sulla paura di rivelare la propria emotività.
La paura aumenta quanto più si evitano le situazioni che sono causa di ansia. Come in tutte le fobie evitare le circostanze temute fa aumentare il timore di trovarcisi, instaurando un circolo vizioso da cui si ha difficoltà ad uscire.
E’ impossibile, o quasi, tenersi lontani da tutte le situazioni sociali ma i sociofobi cercano in tutti i modi di sottrarsi alle occasioni di contatto, scegliendo professioni in cui i rapporti con gli altri sono ridotti al minimo e inventando pretesti per non essere coinvolti in attività di gruppo.
Quando si trovano in presenza di estranei non rivolgono loro la parola e cercano in tutti i modi di non incrociarne lo sguardo. Di loro si pensa spesso che siano freddi, eccentrici, alteri, ma in realtà vorrebbero avere amici e vivere come tutti gli altri. I sociofobi non sono misantropi o timorosi dell’aggressività e della cattiveria altrui, non pensano male degli altri ma solo di se stessi.
L’inizio di questo disturbo risale spesso all’infanzia o all’adolescenza. Una volta apparsa la fobia sociale può durare per anni, talvolta anche per tutta la vita. Fin dall’infanzia si sentono inibiti ed è difficile dire se la loro fobia sia scaturita dall’inibizione o viceversa. In età adulta hanno tendenze ansiose generalizzate e sono spesso demotivati, privi di autostima e demoralizzati, sintomi che ricalcano quelli della depressione.
Alcuni hanno avuto genitori a loro volta timidi e introversi, perciò sono cresciuti in assenza di modelli di socializzazione sufficienti. Altri hanno sofferto di atteggiamenti svalutativi da parte di uno o di entrambi i genitori, con critiche e derisioni continue, per esempio da parte di un padre autoritario che aveva scelto uno dei figli come capro espiatorio o che riponeva in lui aspettative smisurate.
Alcuni, al contrario, sono stati bambini troppo protetti da parte dei genitori, convinti di agire nel loro bene; altri bambini si sono sentiti scoraggiati da un clima troppo adulto, nel quale la loro emotività non poteva esprimersi liberamente e altri ancora sono stati bambini frustrati o per mancanza di affetto o per mancanza di comprensione; ci sono poi quelli che sono stati dominati e soffocati da uno dei genitori ed infine quelli che hanno avuto un padre che, reputandosi molto intelligente, glielo faceva sempre notare.
In conseguenza di tutto ciò si verifica, in età adulta, la permanenza di una visione dicotomica di sé e degli altri: o si è perfetti e geniali (gli altri) o non si è nulla (se stessi). Di conseguenza, nel relazionarsi con gli altri, un tratto comune è il timore di sentirsi rifiutati.

Il counselling e la timidezza 

Attraverso il counselling si arriva a modificare progressivamente i comportamenti e i modi di pensare che scatenano la sofferenza. Il lavoro cognitivo consiste nel fare comprendere al cliente che certe sue convinzioni e certi suoi modi di vedere il mondo e se stesso deformano la realtà procurandogli emozioni dolorose.

Il percorso di liberazione dal disagio consiste dunque nel praticare una“ristrutturazione cognitiva”, consistente in un’accurata analisi delle distorsioni della realtà e delle convinzioni errate che contraddistinguono il cliente nel quotidiano, al fine di raddrizzarle progressivamente. Il cliente è guidato nell’analisi del suo dialogo interiore, dei frammenti di pensiero che lo assalgono: si tratta spesso di pensieri automatici, ragionamenti orientati costantemente verso la propria svalorizzazione.
Generalmente, quando si analizza un’esperienza sociale vissuta dal cliente, il suo riflesso abituale è quello di fissarsi solo sulla sensazione di ansia o di imbarazzo provata, invece che sugli elementi positivi dell’esperienza. Costringendosi ad analizzare tutti gli aspetti positivi e negativi delle situazioni incontrate, egli può così rimettere in questione le proprie convinzioni. E’ così possibile che queste modifiche prendano campo nella memoria a lungo termine, facilitando pensieri più elastici e un migliore controllo delle emozioni.
Come abbiamo detto, gli evitamenti permettono di sfuggire alle situazioni angoscianti, ma mantengono il cliente nella falsa idea che queste situazioni non possono essere affrontate. Gli si insegna allora ad esporsi a livelli d’ansia crescenti, creando situazioni via via più ansiogene. Appositi giochi di ruolo consentono di acquisire nuove tecniche di affermazioni di sé. I clienti constatano che la loro angoscia non è sempre percepita dagli altri e che ciò non ha conseguenze a lungo termine. Si tratta di un lavoro didesensibilizzazione graduale che probabilmente produce effetti nella memoria emotiva: l’approccio al cambiamento del pensiero negativo è lento ed ha una distanza tale che la mente ha tutto il tempo necessario per abituarsi gradualmente ad associare, alla situazione che incute timore, una reazione emotiva più rilassata.
Il vecchio schema negativo viene in questo modo sostituito con una nuova reazione positiva.
Grazie agli effetti congiunti di questi metodi cognitivi e comportamentali, i progressi a volte sono spettacolari soprattutto quando i clienti acquistano padronanza della tecnica e possono modificare la propria visione del mondo. Gli esercizi di esposizione devono essere ripetuti spesso e a lungo nella vita reale, dato che i vecchi riflessi condizionati e le percezioni negative radicate nel corso di anni non si lasciano scacciare facilmente.
 
Fonte: http://www.chiarasvegliado.it/la-timidezza/ 

Nessun commento:

Posta un commento